Una doverosa premessa: scrivere questa recensione non è stato affatto semplice, un pò perché la tematica è molto delicata e un pò per il timore di non essere completamente oggettiva per via della stima che nutro nei confronti dell'autrice. Ad ogni modo eccola qui.
Il titolo del libro di Marina Sozzi, "Io non sono il mio tumore" è di impatto, molto forte. Un pò perché è una specie di confessione dell'autrice, una specie di ridefinizione di se stessa, un modo di affermare pubblicamente la sua esistenza, il suo esistere, il suo essere e di sconfessare contemporaneamente l'identificazione con la malattia. Senza però negarne l'esistenza. Il tumore c'è, esiste, è una realtà. Ma non dice nulla e non si identifica con l'autrice. Credo che sia proprio questa accettazione della malattia e al contempo il rifiuto dell'identificazione con la stessa a fare dell'opera di Marina un testo coraggioso, fin dall'inizio.
Il libro di Marina Sozzi racconta mille storie tutte accomunate da quello che è anche il titolo del libro. Il saggio parla della malattia, dal suo interno attraverso il vissuto dell'autrice che si è trovata più volte a farci i conti, sia dall'esterno attraverso le storie di coloro i quali l'hanno vissuta e che l'hanno raccontata alla Sozzi o per iscritto.
Ad una ricostruzione scientifica e razionale della malattia in tutte le sue forme si alternano scene della vita della protagonista. Il suo sentire, la paura e la preoccupazione di fronte ai familiari, il timore per la reazione alle persone più vicine a lei, la figlia che quando la protagonista scopre di avere un cancro per la prima volta è solo una bambina.
Il libro affronta altresì il rapporto che intercorre tra malato e malattia, la difficoltà di parlarne con gli altri e di fare i conti con sé stessi. Il cancro visto come qualcosa da combattere e sconfiggere che mette chi ce l'ha di fronte alla necessità di trovare un senso ad esso.
È interessante a mio avviso il costante intervallarsi delle interviste e di informazioni prese dalla letteratura scientifica relative proprio a questa malattia.
È bello leggere la storia della scrittrice che racconta che all'inizio il progetto da cui il libro era nato era di intervistare tutte le persone che erano state colpite dalla malattia. Perché con il tempo quelle storie diventano troppo difficili da ascoltare: perché rimandano in qualche modo al vissuto della Sozzi, perché sono un eco del dolore esperito dalla protagonista.
Così alla fine Marina si avvale della letteratura di chi magari non è sopravvissuto al cancro. Come se trovasse un dialogo, un canale per raccontarlo. Un canale che passa attraverso la narrazione scritta di chi l'ha vissuto.
Interessante anche il tema del rapporo tra il medico ed il paziente, la difficoltà del medico per primo di far fronte al dolore che sentire le storie dell'ammalato arreca allo specialista stesso. Marina spiega come è proprio il timore della sofferenza a far sì che i medici mettano in atto degli specifici meccanismi di difesa: l'utilizzo di termini medici troppo specifici e quindi poco comprensibili: questo al fine di creare una distanza vera e propria (fatta di una sorta di assenza di trasparenza) tra loro e l'ammalato; l'avvalersi di informazioni volutamente vaghe in merito alle possibilità di guarigione; l'accanimento contro la malattia vista come una presenza fisica da debellare indiscriminatamente, indipendentemente dall'effettiva speranza di guarigione ; l'assenza di una terapia ad hoc per ogni paziente (che preveda un'attenzione ad personam per l'ammalato). Tutto questo crea una distanza che è anche emotiva tra dottore e paziente e tra il dottore e il percepito dello stesso. Marina sostiene che invece un rapporto diverso con il dottore, una spiegazione più accurata del quadro clinico, una vicinanza maggiore tra paziente e malato potrebbe migliorare la vita dei malati. Spesso la distanza fa sì che il medico dica bugie al paziente per la difficoltà di affrontare il proprio dolore: Marina parla di una ragazza a cui un oncologo aveva comunicato che si sarebbe sicuramente salvata dopo essersi sottoposta ad una serie di trattamenti chemioterapici e sostiene - a ragione - che un paziente debba essere informato circa la sua effettiva speranza di vita, per poter scegliere come vivere quello che gli rimane, conoscendo la verità e le conseguenze di una cura che ha delle controindicazioni considerevoli come la chemioterapia.
Il saggio mi è piaciuto tanto perché per motivi personali mi sono sempre chiesta come si sentisse una persona malata di cancro, cosa vivesse, cosa dovesse affrontare ogni giorno più che all'esterno all'interno, dentro di sé. E lei racconta il senso di smarrimento, il desiderio di andare avanti, la paura che lei stessa ha affrontato.
Bella soprattutto la parte del saggio in cui l'autrice dice che a volte, come nel suo caso, la malattia diventa un'occasione per conoscersi, per affrontare le proprie paure, per mettersi davanti allo specchio e ricominciare di nuovo. Marina racconta come in seguito ad un percorso personale su se stessa sia arrivata a dire apertamente cosa pensava oppure a vivere indipendentemente da quello che gli altri pensavano. Insomma il cancro l'ha cambiata, sotto molti punti di vista.
In questo senso il testo di Marina Sozzi racconta una storia di crescita personale in cui tutti possiamo riconoscerci e che trasmette al lettore molta forza e speranza: se ce la fa chi ogni giorno affronta una malattia così difficile, perché non dovrebbe farcela chiunque ad affrontare la vita di tutti i giorni con i propri mezzi?
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