Sara si infilò due dita in gola e vomito tutto nel
water. Ad ogni cosa che le saliva su
dallo stomaco sentiva un sasso percorrerle tutto il corpo al contrario, come se
avvertisse che quel gesto era contro la vita, era contro di lei. Si faceva male,
si faceva del male per soffocare un vuoto che arrivava da molto lontano ma non
sapeva bene da dove. Sapeva solo che ogni tanto doveva riempirsi la pancia di
cibo, non importava cosa mangiasse ma che soffocasse il vuoto che la consumava
dentro. Biscotti, pane, formaggio, dolci qualunque cosa era utile allo scopo.
Il cibo non era un nutrimento, era una arma contro se stessa. Non sentiva il
gusto, trangugiava, ingoiava la vita, ingoiava il dolore, soffocava tutto. Per
una decina di secondi le pareva di essere sazia, di essere piena, di essere
riuscita a tappare quel vuoto. E di stare bene. Ma dopo una brevissima euforia
arrivava il senso di colpa. Si sentiva grassa, si sentiva non a posto. Così
vomitava. Si svuotava di nuovo. Gli occhi sembravano poterle uscire dalle
orbite, le sembrava di poter uscire dal suo corpo di diciassettenne, di
allontanarsi da se stessa, di non esserci più.
“Che stai facendo?” le gridò suo padre, con un tono di
lontana preoccupazione nella voce.
Sara si asciugò la bocca con la manica della felpa e gli
gridò nervosamente “niente! Ma che vuoi che faccia, lasciami stare” e la voce
le si fece sempre più sottile mentre correva in camera sua, guance solcate
dalle lacrime e si buttava sul letto.
Era sabato, il giorno peggiore della settimana. Sua madre
tornava da lavoro e Sara sapeva che a breve i suoi genitori avrebbero litigato.
Era terribile, come avere due lampi che si scontravano, due venti contrari e
costanti che spingevano uno contro l’altro e lei lì, in mezzo.
“Ma che è sto casino? Possibile che è sempre tutto
incasinato in questa cavolo di casa?” le chiese sua madre, entrando nella sua
stanza.
Sara alzò appena la testa, sua madre le vide il viso tra il
mascara colante e le lacrime, si avvicinò al letto e le disse “Che cos’hai
tesoro?”
Si avvicinò anche suo Padre Rino e con gli occhiali tra le
mani le disse “Sara cosa c’è che non va? Possibile che non riesci mai a fare un
sorriso?”
Ada, sua moglie, gli lanciò uno sguardo di sbieco, Sara
sollevò la testa e disse al padre: “lasciami in pace!”
Gli occhi di Rino si fecero piccoli e ancora più neri mentre
la rabbia di Sara gli arrivò in faccia, con violenza. Lui si rivolse alla
moglie e le disse “tu me l’hai messa contro” e se ne andò dalla stanza con le
spalle curve, come se la sua schiena sostenesse il peso del mondo.
Sara non capiva di essere una vittima di un gioco da grandi
a cui non aveva scelto di partecipare. Era cresciuta con l’idea che il padre
fosse un’incapace che non valeva niente e che bisognava trattare male. Vedeva
la madre comportarsi così e faceva altrettanto. Ma il suo era un riflesso
condizionato, condizionato dall’amore per sua madre.
Era sempre stata una ragazza paffuta a cui il cibo e i dolci
piacevano molto. Però era anche cresciuta con l’idea che il cibo fosse una
consolazione, ogni volta che era triste sua madre la portava a mangiare un
gelato, all’uscita da scuola tutti i pomeriggi cappuccio e brioche. Insomma
inconsciamente il cibo era la soluzione. Era la risposta ad un brutto voto a
scuola, ai compagni di classe che la prendevano in giro, a Marco Tommasiello
che non se la filava di striscio, anche se lei gli aveva scritto che avrebbe voluto
essergli amica. E così col tempo ogni volta che qualcosa non andava, voilà
mangiava. Ma mangiava fino a scoppiare, fino a stare male. Col tempo capii che
cercava nel cibo di trovare una compensazione ad una carenza grandissima,
quella di suo padre.
Rino era un uomo buono. A 18 anni aveva lasciato i suoi sei
fratelli a Caserta per cercare la sua strada a Torino. Prima era entrato in
Polizia, poi aveva smesso la divisa per aprirsi un’agenzia di pratiche
assicurative e successivamente era diventato Agente di Polizia Locale. Era un
uomo di grande personalità, cuore e tenacia.
“Tesoro mio,
quando leggerai questa lettera sarà troppo tardi, perché non
ci sarò più. Sai quanto io ami scrivere con la mia macchina che fa tanto
rumore. E’ come se quel rumore potesse rafforzare il senso delle parole e
caricarle del significato che ho sempre fatto molta difficoltà ad esprimere.
La verità, cara Sara mia bella, è che non mi hanno insegnato
ad amare. Nonno Gaetano era un gran lavoratore ma parlava pochissimo e la nonna
Rosa aveva un sacco di problemi di salute. Sono cresciuto forte si, ma poco
avvezzo ai sentimenti.
Se tu vedessi quanto sei bella Sara, quanta luce c’è nei
tuoi occhi. Perfino quando mi guardi arrabbiata percepisco la grandezza del tuo
cuore e del tuo amore. Sei stata la
pedina dell’odio tra me e la mamma. Non doveva succedere. Ma io l’ho sempre
amata moltissimo e ho lasciato che mi vincesse un sacco di volte. Sappi che ti
ho sempre voluto bene, nonostante tutto. Sappi che sei sempre stata il mio
piccolo cuore. Ti ricordi quando da piccola ti chiedevo un bacio e tu dicevi
che ti erano finiti? Sii forte cara figlia mia, sii coraggiosa sempre, sorridi,
tieni duro. Perché la vita è sempre una lotta, una bellissima guerra da cui
imparerai e a volte vincerai. Sappi che dovunque sarai, ovunque il tuo cuore ti
porterà, io sarò con te a proteggerti
sempre. Ti voglio bene piccola mia. Scusa se non sono riuscito a dirtelo quando
ero vivo. Ma tra me e te c’è sempre stata una stella troppo grande ad
adombrarmi, una stella che è tua mamma.
Perdonala anche se ti ha allontanato da me. Questo lo so,
cara Sara. Sappi che io ti perdono e non ti incolpo della rabbia che hai per
me. So che mi vuoi bene e sarò sempre una parte di te che non ti lascerà mai.
Non dimenticarti di volerti bene sempre, anche quando e se la vita ti metterà
di fronte ad un’immagine di te che non ti piace tanto.
E non dimenticarti nemmeno di me!
Con amore, tutto l’amore che non sono stato tanto capace di
dimostrarti.
Tuo padre Rino”.
A distanza di anni Sara trovò questa lettera tra i documenti
di suo padre. L’aveva scritta poco prima di ammalarsi. Un male incurabile che
se lo portò via in sei mesi.
A Sara venne in mete una delle ultime sere che lui era nel
letto di ospedale, pieno di cavi e di fili. Il tempo in ospedale sembrava non
passare mai, sembrava che si dilatasse, che fosse come una matassa di cotone
che si allargava lentamente nello spazio. Sara aveva lasciato l’università,
mettendo la sua carriera accademica in stand-by per stare accanto al padre, per
recuperare il bene ed il tempo perduto. Tutti i giorni in quella stanza di ospedale
che odorava di malattia, di attesa e di nulla. Tutti giorni a combattere con i
dottori che volevano che lei lasciasse la stanza perché non era mai l’orario
delle visite. E lei tutti i giorni a dire “io mio padre da solo qui non lo
lascio” e a rimanere tenace dentro la stanza, non importava con quanti medici
avrebbe dovuto combattere.
Una sera lei era seduta ai piedi del letto fissando suo
padre, vedeva le sue dita lunghe e il suo corpo magro e irriconoscibile sotto
le lenzuola. Sembrava così piccolo e indifeso.
Lu aprì lentamente gli occhi, la guardò con quei occhi dolci
e stanchi e le disse “hai mangiato Sara? Vai a mangiare qualcosa”
Sara lo guardò, sorpresa di come il suo amore per lei fosse
ancora così vivo nonostante il fatto che lui fosse tanto debole.
Gli prese la mano, la strinse leggermente e gli disse “certo
papà”.
Lui chiuse gli occhi. Allora Sara decise che era il momento
di digli tutto.
“Mi dispiace papà. Mi dispiace di non averti amato come
avrei dovuto, come meritavi. Ti ho voluto sempre bene, anche se in un modo un po’
lontano e bizzarro. È sempre stato come se mi mancasse l’autorizzazione per
volertene” gli accarezzò la testa e lui riaprì gli occhi
“E’ importante questo Sara”, e lui mise la sua mano sopra
quella di lei e le disse “vai a dormire, Saretta”.
Lei si accomodò sulla poltroncina di pelle marrone che stava
nella stanza e quando si risvegliò suo padre non c’era più.
“Papà!” gridò Sara il giorno dopo vedendo il letto d’ospedale
vuoto. Sara cadde a terra, tra gli
sguardi di sua madre atterrita e dei medici distanti. Cadde di sasso, sulle
ginocchia. Come se il mondo fosse crollato in quel momento. Come se il mondo fosse finito in quel letto
di ospedale. Riprese a mangiare. A colmare quel vuoto. Quell’assenza di
significato. A pensare ad altro, ad allontanarsi da se stessa. Era come se l’assenza
del padre la facesse sentire mancante, come se il cibo la aiutasse a
ricostruire quella figura a cui non era riuscita mai veramente ad avvicinarsi.
Così passò un altro anno. Un anno di vuoti interiori e di
pieni bulimici. In cui lei usava il cibo come anestetico per non sentire nulla,
per non darsi spazio. Aveva lasciato l’università, passava i giorni stesa a
terra a fissare il soffitto a pensare a quanto vuota fosse la sua vita a quanto
le mancasse suo padre, a quanto le sembrasse che nulla avesse un senso.
Trovò quella lettera e capii. Capii che suo padre l’aveva
sempre vista, nonostante tutte le volte che lei lo aveva trattato male. Capii che
l’aveva perdonata per essersi fatta trascinare in una guerra in cui lei non
avrebbe dovuto giocare alcun ruolo. Capii che anche lei era capace di amare suo
padre, nonostante tutto. Capii che lei per prima doveva perdonare se stessa. Perché
si era trovata in mezzo ad una guerra fredda, tra un uomo che la amava ma non
era stato capace di tenderle la mano e una donna forte e risoluta che le aveva
messo in mano un’arma perché potesse combattere con lei contro un finto nemico.
Capii che non aveva avuto il tempo di decidere e di scegliere per se. E mentre
leggeva la lettera reggendola con una mano mentre con l’altra teneva l’ennesima
merendina, Sara decise che era il momento di decidere. Che era il tempo di
accogliere quel vuoto nella sua vita e nello stomaco e attraversarlo. Capii che
il vuoto era lo spazio che le era stato concesso per capirsi, per conoscersi e
per ricominciare daccapo.
Allora andò nella sua stanza e si mise le sue scarpe da
ginnastica nuove. Uscì di casa e cominciò a correre. Un passo dietro l’altro
sentiva che il suo corpo ricominciava a essere vivo, a sentire. L’aria
frizzante di febbraio le baciava le guance e per la prima volta Sara sentiva di
essere vicina a se stessa. Che la sua anima correva dentro quelle scarpe ma non
aveva forma, semplicemente era vita, era energia. Sentiva che un mondo di
opportunità le si aprivano ed il vuoto era solo la paura di scegliere in che
direzione andare.
Sono entrata nel.tuo racconto...e un po mi sono rivista....un papà strappato dalla tua esistenza in breve tempo...un pilastro...che non regge più. ..che manca...ma al suo posto una gran forza che ti slancia a braccia aperte ala vita...che t insegna ad amare...a vivere ...di buone emozioni e sentimenti...
RispondiEliminaSi può essere felici...lo stesso..non credevo sai..
Basta volerlo...e cercarla la felicità. .
Un ruolo imposto da uno stupido gioco tra adulti...sai quante volte avrei voluto abbracciarlo e dirgli ti voglio bene?
Ma il mio ruolo era altro....caricata di responsabilità da una mamma che usava me per mediare i loro continui litigi....
Ma non c'è più tempo per rancore...c'è solo spazio per vivere e sorridere a tutto ciò che ci circonda. ..e sono certa che tu hai imparato a farlo!
Cara lettrice anonima, ti ringrazio per aver condiviso la tua esperienza con me. Sono contenta che tu sia in qualche modo "ritrovata" in quello che ho scritto: per me è un grandissimo successo! Lasciare andare le cose che non ci appartengono è il modo migliore per dare spazio a tutto quello che la vita ha in serbo per noi, hai imparato anche tu! un abbraccio.
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